califfo parve come colta dal fulmine; ma dissimulando il proprio turbamento e l’agitazione, lasciò parlare la madre di Ganem, la quale proseguì in codesta guisa: — Sono vedova di Abu Aibu, mercante di Damasco; aveva un figliuolo chiamato Ganem, il quale, venuto a trafficare a Bagdad, fu accusato d’aver rapita questa Tormenta. Il califfo lo fece cercare dovunque per farlo morire, e non avendolo potuto trovare, scrisse al re di Damasco di far saccheggiare e demolire la nostra casa, ed esporme, colla figliuola, per tre giorni di seguito, affatto ignude, agli occhi del popolo, e quindi bandirci perpetuamente dalla Siria. Ma per quanto indegnamente ci abbiano trattate, io me ne consolerei, se mio figlio vivesse ancora e potessi ritrovarlo. Qual gioia per sua sorella e per me di rivederlo! Dimenticheremmo, abbracciandolo, la perdita de’ nostri beni, e tutti i mali che abbiamo per lui sofferti. Aimè! son persuasa ch’ei non ne sia se non l’innocente cagione, e che non è più colpevole verso il califfo di sua sorella e di me. — No, senza dubbio,» interruppe la favorita a questo passo, «egli non è più colpevole di voi. Io posso assicurarvi della sua innocenza, poichè quella Tormenta, della quale avete tanto a lagnarvi, son io, che per la fatalità degli astri, vi fui causa di tante sventure. A me dovete imputare la perdita di vostro figliuolo, s’egli non è più al mondo; ma se cagionai la vostra disgrazia, posso eziandio ripararla. Ho già giustificato Ganem nell’animo del califfo; questo principe ha fatto pubblicare in tutti i suoi stati che perdonava al figlio di Abu Aibu, e non dubitate ch’ei non vi faccia altrettanto bene quanto male v’ha recato: ora non siete più suoi nemici. Egli attende Ganem per rimunerarlo del servigio a me prestato, unendo le nostre fortune e concedendomi a lui in isposa. Perciò, risguardatemi come vostra figliuola, e permettete che vi consacri eterna amicizia.» Sì dicendo,