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m’accusi di violenza e d’ingiustizia: chi è dunque colui che, malgrado i riguardi e la considerazione ch’ebbe per me, si trova in uno stato sì miserabile? Parla; sai quanto io sia buono per indole ed ami di rendere giustizia. —

«Comprese la favorita da tal discorso che il califfo l’aveva udita; e profittando di sì bella occasione per giustificare il suo diletto Ganem: — Commendatore de’ credenti,» rispose, «se mi sfuggiva qualche parola che non suoni grata alla maestà vostra, vi supplico umilmente di perdonarmelo. Ma l’uomo di cui volete conoscere l’innocenza e la miseria, è Ganem, l’infelice figliuolo di Abu Aibu, mercadante di Damasco. Egli fu che m’ha salvata la vita, concedendomi asilo in propria casa. Confesserò che, appena mi vide, egli formò forse il pensiero di dedicarsi a me e la speranza d’indurmi a tollerare le sue attenzioni: così giudicai dalla premura che dimostrò nel trattarmi, e rendermi tutti i servigi de’ quali avea d’uopo nella condizione, in cui mi trovava. Ma quando seppe aver io l’onore d’appartenervi: — Ah! madama!» mi disse; «quanto appartiene al padrone, è vietato allo schiavo.» Da quel momento, devo questa giustizia alla sua virtù, la di lui condotta non ismentì le sue parole. Eppure voi sapete, Commendatore de’ credenti, con qual rigore lo trattaste, e ne risponderete davanti al tribunale di Dio. —

«Non si adontò il califfo della libertà usata in quel discorso. — Ma,» ripigliò egli, «posso io fidarmi alle assicurazioni che tu mi dai della ritenutezza di Ganem? — Sì,» rispose quella, «sì, lo potete: non vorrei, per nessuna cosa al mondo, mascherar la verità; e per provarvi che sono sincera, vi farò una confessione che forse vi dispiacerà, ma onde chieggo preventivamente perdono a vostra maestà. — Parla, figliuola,» disse allora Aaron-al-Ra-