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la lettera e se la pose sul capo, per dimostrare d’esser pronto ad eseguire con sommissione gli ordini che potesse contenere. L’aprì quindi, e quando l’ebbe letta, scese dal trono, salì senza dilazione a cavallo coi primari officiali della sua casa, facendo avvertire il giudice di polizia, il quale subito accorse, e seguito da tutti i soldati della guardia, si recò alla casa di Ganem.

«Dacchè quel giovane mercadante era partito da Damasco, sua madre non ne aveva ricevuto alcuna lettera. Tuttavia, essendo di ritorno gli altri mercanti che avevano fatto con lui il viaggio di Bagdad, le dissero tutti d’aver lasciato il suo figliuolo in perfetta salute; ma siccome non tornava mai, e trascurava di darle egli stesso proprie notizie, non ci volle di più per far credere a quella tenera madre che fosse morto. E se ne persuase in guisa, che vestì il lutto, piangendo Ganem come se lo avesse veduto morire, e chiusigli in persona gli occhi. Giammai una madre mostrò tanto dolore, e lungi dal cercare di consolarsi, compiacevasi nel nutrire la propria afflizione. Fece erigere in mezzo alla corte della sua casa una tomba sotto la quale mise una figura che rappresentava il figlio, e la coprì colle proprie mani d’un velo funebre; passava sotto a quella tomba quasi sempre i giorni e le notti a piangere, come se vi fosse sepolto il corpo di lui, mentre la bella Forza de’ Cuori, sua figliuola, le teneva compagnia, alle sue mescolando le proprie lagrime.

«Era già qualche tempo che s’occupavano ad affliggersi così, e che il vicinato, udendono le grida ed i lamenti, compiangeva quelle dolorose, quando Mohammed Zinebi venne a bussare alla porta, la quale apertagli da una schiava di casa, entrò egli bruscamente, domandando ove fosse Ganem, figliuolo di Abu Aibu.»

La sultana, svegliata dalla sorella più tardi del solito, non potè per quella notte fare un più lungo racconto; l’indomani, lo ripigliò ella in questi sensi: