perduti. Cercano di noi!» Il giovine guardò subito per la gelosia, e fu colto da terrore quando vide le guardie del califfo colla scimitarra sguainata, ed il gran visir col giudice di polizia alla loro testa. A tal vista, rimase immobile, e non ebbe la forza di pronunciar verbo. — Ganem,» ripigliò la favorita, «non c’è tempo da perdere. Se mi amate, mettete subito l’abito d’uno de’ vostri schiavi, e tingetevi il volto e le braccia di fuliggine. Ponetevi poi in testa uno di quei piatti; potranno prendervi pel garzone del bettoliere, e vi lasceranno passare. Se vi chiedessero dov’è il padrone, rispondete, senza esitare, che trovasi in casa. — Ah, signora!» rispose Ganem, più spaventato per Tormenta che per lui; «voi non pensate se non a me. Aimè! che sarà di voi? — Non ve ne date pensiero,» ripigliò essa; «tocca a me a pensarci. Quanto a ciò che lasciate in questa casa, io ne avrò cura, e spero che un giorno vi sarà restituito fedelmente tutto, passata che sia la collera del califfo: ma ora evitate la sua violenza. Gli ordini ch’egli dà nei primi suoi impeti, sono sempre funesti.» L’afflizione del giovane mercante era tale, che non sapeva a cosa determinarsi, e sarebbesi di certo lasciato sorprendere dai soldati del califfo, se Tormenta non lo avesse sollecitato a travestirsi. Si arrese finalmente alle sue istanze, e preso un abito di schiavo, s’insudiciò di fuliggine; ed era tempo, poichè già bussavano alla porta, e tutto ciò che poterono fare, fu di abbracciarsi teneramente. N’era tanto il dolore, che diventò loro impossibile di dirsi una sola parola: tali furono i loro saluti. Ganem uscì finalmente con alcuni piatti sulla testa, e preso infatti per un garzone d’osteria, non fu arrestato; il gran visir anzi, che fu il primo ad incontrarlo, si trasse in disparte per lasciarlo passare, ben lungi dall’immaginarsi che fosse l’individuo cui cercava. Quelli che stavano dietro al gran visir, gli