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gridare che si attendesse. E n’ebbe egli un’altra ragione: che in quel momento, alzando gli occhi verso una strada larga che gli stava rimpetto e sboccava sulla piazza, vide in mezzo ad essa una torma di cavalieri che accorreva a briglia sciolta. — Visir,» disse egli a Sauy, «che cosa vuol dir ciò? Guarda...» Il crudele, il quale s’insospettì di quello che poteva essere, sollecitò il re a dare il segnale al carnefice. — No,» rispose questi, «voglio prima sapere chi sono quei cavalieri.» Era il gran visir Giafar col suo seguito, che veniva da Bagdad in persona per ordine del califfo.

«Onde sapere il motivo della venuta di questo ministro a Balsora, osserveremo che dopo la partenza di Noreddin colla lettera del califfo, non erasi questi ricordato alla domane, e nemmeno per più giorni, di mandar un corriere colla patente, di cui aveva parlato alla Bella Persiana. Stava un dì nel palazzo interno, ch’era quello delle donne, e nel passare davanti ad un appartamento, udendo una bellissima voce, si fermò, ed appena ebbe intese alcune parole, esprimenti i dolori dell’assenza, chiese ad un officiale degli eunuchi, che lo seguiva, chi fosse la donna che colà dimorava. L’officiale rispose ch’era la schiava del giovane signore da lui mandato a Balsora per esservi re in luogo di Mohammed Zinebi.

«— Ah! povero Noreddin, figliuolo di Khacan,» sclamò tosto il califfo, «come ti ho dimenticato! Presto,» soggiunse, «chiamatemi immediatamente il gran visir.» Giunse il ministro, ed il califfo: «Giafar,» gli disse, «non mi sono ricordato di mandare la patente per far riconoscere Noreddin re di Balsora. Non c’è tempo di spedirla: monta a cavallo con alcuni de’ tuoi, e va tu stesso a Balsora in tutta fretta. Se Noreddin non è più al mondo, e l’abbiano fatto morire, fa impiccare il visir Sauy: se non è morto, conducimelo tosto col re e col suo visir. —