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lo lascerebbe cadere; ma appena vide che s’avvicinava, l’uccello prese il volo, e si posò un’altra volta in terra. Continuò egli ad inseguirlo, ma l’uccello, inghiottito allora il talismano, volò più lungi. Il principe, ch’era assai destro, sperò di ucciderlo con una sassata, e lo inseguì di nuovo. E più quello si allontanava da lui, più egli ostinavasi a seguirlo ed a non perderlo di vista.

«Da valle in collina e da collina in valle, l’uccello si tirò dietro tutto il giorno il principe Camaralzaman, sempre allontanandolo dalla prateria e dalla principessa Badura; e la sera, invece di gettarsi in un cespuglio, in cui il giovane avrebbe potuto sorprenderlo nell’oscurità, andò a porsi in cima ad un grand’albero ove stava al sicuro d’ogni persecuzione.

«Il principe, disperato d’essersi data inutilmente tanta pena, stava deliberando se dovesse far ritorno al campo. — Ma,» diceva fra sè, «da qual parte tornerò a discendere per le colline e le valli, per le quali sono venuto? Non mi smarrirò nelle tenebre? E le mie forze me lo permetterano? E quand’anche lo potessi, oserei presentarmi davanti alla mia sposa, senza il suo talismano?» Inabissato in questi desolanti pensieri, ed oppresso di fatica, di fame, di sete e di sonno, si coricò e passò la notte appiè dell’albero.

«Alla domane, Camaralzaman si destò prima che l’uccello avesse abbandonato l’albero; e non l’ebbe appena veduto ripigliar il volo; ch’egli l’osservò e lo seguì di nuovo per tutto il giorno, con altrettanto poco esito del precedente, alimentandosi d’erbe e di frutta, che trovava per istrada. Fece la cosa medesima fino al decimo giorno, tenendo d’occhio l’uccello dalla mattina alla sera, e passando la notte appiè della pianta; alla cui cima quello sempre appollaiavasi.