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vôlta della più leggiadra forma, sostenuta da cento colonne di bel marmo bianco come alabastro, colle basi ed i capitelli ornati di quadrupedi e d‘uccelli dorati di vario specie. Il tappeto di quello stupendo salone, composto d’un sol pezzo a tondo d’oro, sparso di mazzetti di rose di seta rossa e bianca, e la vôlta dipinta anch’ella a rabeschi, offrivano alla vista un oggetto de’ più gradevoli. Fra ogni colonna stava un picciolo sofà guarnito alla medesima guisa, con grandi vasi di porcellana, di cristallo, di diaspro, di lustrino, di porfido, d’agata ed altre materie preziose, guernite d’oro e di gemme. Gli spazi fra le colonne erano altrettante grandi finestre, coi davanzali a giusta altezza per appoggiarsi, guarniti al pari del sofà, che guardavano sul più delizioso giardino. Erano i viali di questo selciati di sassolini a vari colori, che rappresentavano il tappeto del salone a volta; di modo che guardando il suolo di dentro e di fuori, sembrava che la vôlta ed il giardino, con tutti i loro abbellimenti, stessero sul medesimo tappeto. Lungo i viali si scorgevano due canali d’acqua limpida come il cristallo, della medesima figura circolare della cupola, uno de’ quali, più alto dell’altro, versava le sue acque in cascata nell’ultimo; e magnifici vasi di bronzo dorato, tutti pieni d’arbusti e di fiori, erano disposti di spazio in ispazio sulle rive di questo. Facevano que’ viali una separazione tra grandi spazi piantati d‘alberi dritti e fronzuti, ove mille canori augelli formavano melodiosi concerti, ricreando la vista coi loro svariati voli, e colle zuffe, ora innocenti ed ora sanguinose, che davansi per aria.»

Il sultano e Dinarzade prestavano attento orecchio alla descrizione del palazzo e del giardino della favorita, quando il giorno comparve. — Buon Dio!» disse questa alla sorella, la quale aveva cessato di parlare, «quanto mi spiace d’essere interrotta nel più bel