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sono un gran parlatore come certuni pretendono, ma un uomo chiamato giustamente il taciturno.»
Colpita Scheherazade dalla luce del giorno, che cominciava a rischiarare l’appartamento del sultano delle Indie, cessò qui dal racconto, e riprese poi il discorso la notte seguente in questi termini:
NOTTE CLXXXIV
— Sire, il sultano di Casgar ebbe la compiacenza di soddisfare la curiosità del barbiere, comandando gli fosse narrata la storia del gobbetto, poichè sembrava desiderarlo con ardore. Quando l’ebbe udita, il barbiere crollò la testa, quasi avesse voluto dire esservi in quell’affare qualche cosa di strano ch’ei non comprendeva. — In vero,» diss’egli, «questa storia è sorprendente; ma voglio esaminare davvicino codesto gobbo.» In fatti, gli si accostò, sedè per terra, ne prese la testa fra le ginocchia, ed osservatala attentamente, proruppe d’improvviso in un sì grande scoppio di risa, e con tanta poca ritenutezza, che si lasciò andare rovescioni sulla schiena, senza riflettere che stava davanti al sultano di Casgar. Poi, rialzatosi, senza cessar dal ridere: — Ben si dice, e con ragione,» sclamò egli ancora, «che non si muore senza motivo. Se mai storia meritò di venire scritta in lettere d’oro, è certo quella di questo gobbo. —
«A tali parole tutti riguardarono il barbiere come un buffone, o come un vecchio, che avesse smarrito il senno. — Uomo silenzioso,» gli disse il sultano, «parlate; che cosa avete per rider tanto? — Sire,» rispose il barbiere, «giuro per l’umore benefico di vostra maestà, che questo gobbo non è morto; vive ancora, e voglio esser trattato da pazzo, se non ve lo fo