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Il giorno, che cominciava a spuntare, impedì a Scheherazade di proseguire il suo discorso; ma ne ripigliò la continuazione sulla fine della notte seguente:
NOTTE CXXVI
— Sire,» diss’ella, «il provveditore del sultano di Casgar essendosi pubblicamente accusato da sè qual autore della morte del gobbo, il luogotenente di polizia non potè dispensarsi dal rendere giustizia al mercatante. — Lascia,» disse al boia, «lascia andare il cristiano, ed impicca quest’uomo in sua vece, essendo manifesto, per la medesima sua confessione, ch’egli è il reo;» Il carnefice, posto in libertà il mercatante, mise tosto la corda al collo del provveditore; ma mentre stava per ispedirlo, si udì la voce del medico, il quale pregava istantemente di sospendere l’esecuzione, e si faceva far largo per recarsi a piè del patibolo.
«Giunto davanti al giudice di polizia: — Signore,» gli disse, «quel musulmano che volete far impiccare, non ha meritata la morte; io solo sono il reo. Ieri, nel corso della notte, un uomo ed una donna, ch’io non conosco, vennero a bussare alla mia porta conducendomi un infermo. La mia serva corse ad aprire senza lume, ricevè da essi una moneta d’argento per venirmi a dire da parte loro di voler incomodarmi a scendere per visitar l’ammalato. Mentr’essa mi parlava, portarono coloro l’infermo in cima alla scala, e disparvero. Io discesi senza attendere che la fantesca accendesse la candela, e venendo nell’oscurità ad urtare col piede il malato, lo feci rotolar giù per la scala. Vidi poi ch’era morto, ed