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mercatante cristiano rinvenne dall’ubbriachezza, e quanto più rifletteva alla sua avventura, tanto meno poteva comprendere come mai alcuni semplici pugni avessero bastato ad ammazzare un uomo.

«Il luogotenente di polizia, sul rapporto della guardia, e veduto il cadavere, interrogò il cristiano, il quale non potè negare un delitto che non aveva commesso. Siccome il gobbo apparteneva al sultano, essendo un suo buffone, il luogotenente di polizia non volle far morire il mercadante senza aver prima consultato il volere del principe. Recatosi dunque a tal uopo al palazzo onde informar il sultano dell’occorso, questi gli disse: — Io non posso accordar grazia ad un cristiano che uccide un musulmano; andate, e fate il vostro dovere.» A queste parole, il giudice di polizia fece erigere una forca, e mandò banditori per la città a pubblicare che si sarebbe impiccato un cristiano, il quale ucciso aveva un musulmano.

«Finalmente, tratto di prigione il mercadante, fu condotto appiè della forca, ed il boia, attaccatagli la corda al collo, stava per sospenderlo in aria, quando il provveditore del sultano, fendendo la calca, si avanzò, gridando al carnefice: — Aspettate, aspettate; non vi affrettate tanto; non fu egli a commettere il delitto, ma sono stato io.» Il luogotenente di polizia, il quale assisteva all’esecuzione, si mise ad interrogare il provveditore, il quale gli raccontò punto per punto in qual modo avesse ucciso il gobbo, e finì dicendo averne portato il cadavere nel sito dove il mercadante cristiano avevalo trovato. — Stavate,» soggiunse, «per far morire un innocente, poichè esso non può aver ucciso un uomo che non era più in vita. Mi basta d’aver ammazzato un musulmano, senza caricarmi la coscienza anche della morte d’un cristiano che non è colpevole...»