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col favore della poca luce che veniva dall’alto, la disposizione di quel sotterraneo; era una vastissima grotta, la quale poteva avere cinquanta cubiti di profondità. Sentii tosto una puzza insoffribile che usciva da un’infinità di cadaveri, deposti a destra ed a sinistra; anzi, credetti udire alcuni degli ultimi, che v’erano stati calati poco prima, mandare l’ultimo anelito. Tuttavia, giunto al basso, uscii prontamente dalla bara, mi allontanai dai cadaveri turandomi il naso, e mi gettai per terra, ove rimasi a lungo immerso nel pianto. Facendo allora riflessione alla trista mia sorte: — È vero,» diceva, «che Iddio dispone di noi secondo i decreti della sua provvidenza; ma, povero Sindbad, non è per tua colpa se ti vedi ridotto a soccombere in modo sì funesto? Piacesse al cielo che tu fossi perito in qualcuno dei naufragi da cui scampasti! non avresti ora a perire d’una morte sì lenta e terribile. Ma tu te la sei procurata colla tua maledetta avarizia. Ahi sciagurato! non dovevi tu restartene a casa, a godere tranquillamente del frutto delle tue fatiche? —

«Tali erano gl’inutili lamenti, de’ quali faceva echeggiar l’antro, battendomi la testa ed il petto per rabbia e disperazione, ed abbandonandomi ai più desolanti pensieri. Nondimeno (ho a dirvelo?), invece di chiamare in mio soccorso la morte, per quanto miserabile fossi, l’amor della vita si fece ancora sentire in me, e m’indusse a prolungare i miei giorni; a tentoni, e turandomi il naso, andai a cercare il pane e l’acqua entro alla mia bara, e mangiai.

«Benchè l’oscurità che regnava nella grotta fosse tanto fitta da non distinguervi il giorno dalla notte, pure non lasciai di trovare la mia bara, e parvemi che la caverna fosse più spaziosa e piena di cadaveri che non m’avesse sembrato prima. Vissi alcuni giorni del mio pane e della mia acqua; ma finalmente, non avendone più, mi preparava a morire...»