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NOTTE LXXXI
— «Giudicate del mio dolore,» proseguì Sindbad; «essere sepolto vivo non mi pareva fine meno deplorabile di quella di venir divorato dagli antropofagi; eppure così doveva accadere. Il re, accompagnato da tutta la sua corte, volle onorare di sua presenza il funebre convoglio, e le persone più distinte della città mi fecero anch’esse l’onore di assistere a’ miei funerali.
«Quando tutto fu pronto per la cerimonia, si pose il corpo di mia moglie in una bara con tutti i suoi gioielli e gli abiti più magnifici, e quindi s’incominciò la processione. Nella qualità di secondo attore della lagrimevole tragedia, io seguiva immediatamente la bara, cogli occhi bagnati di lagrime, e deplorando il mio disgraziato destino; ma prima di giungere al monte, volli fare un tentativo sull’animo degli spettatori. Mi volsi primieramente al re, poscia a quelli che mi stavano intorno, ed inchinandomi fino a terra per baciare il lembo delle loro vesti, li supplicai ad aver compassione di me. — Considerate,» diceva, «che sono uno straniero, il quale non deve andar soggetto a sì rigorosa legge, e ch’io ho nel mio paese un’altra moglie e figliuoli.» Ebbi un bel declamare tali parole con patetico accento; niuno ne fu intenerito; anzi, affrettaronsi a calare nel pozzo il cadavere di mia moglie, e vi fui calato poco dopo in una bara scoperta, con un vaso pieno d’acqua e sette pani. Finita la funesta cerimonia, fu riposta la pietra sul pozzo, senza badare all’estremo mio dolore ed alle compassionevoli mie grida.
«A seconda che mi avvicinava al fondo, scopersi,