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grazia; cercherò poi i mezzi di consolarle di sì aspra penitenza, ma prima debbo farvi un’altra preghiera in favore della dama stata sì crudelmente maltrattata da un ignoto marito. Siccome sapete un’infinità di cose, è a credere che non ignoriate neppur questa; siate cortese di nominarmi il barbaro, il quale non sì contento di esercitare su lei sì rea crudeltà, ma l’ha financo privata ingiustamente di tutt’i beni che le appartenevano. Mi maraviglio come un’azione tanto ingiusta ed inumana, e che fa torto alla mia autorità, non sia venuta a mia cognizione. — Per far piacere alla maestà vostra,» replicò la fata, «restituirò nel primiero essere le due cagne, guarirò la dama delle sue cicatrici in modo che non apparirà sia mai stata battuta, e poscia nominerà chi la fece maltrattare.

«Mandò il califfo a casa di Zobeide a prendere le due cagne; quando l’ebbero condotte, si presentò alla fata, che l’aveva chiesta, una tazza d’acqua, sulla quale pronunziò essa certe parole che nessuno intese, e la versò quindi su Amina e sulle due cagne. Queste cangiaronsi tosto in due dame di mirabile beltà, e le cicatrici di Amina scomparvero al tutto. Allora la fata disse al califfo: — Commendatore de’ credenti, bisogna adesso palesarvi chi è lo sposo sconosciuto che cercate. Esso vi appartiene davvicino, essendo il principe Amin, vostro figlio maggiore. Invaghitosi di questa dama, sulla descrizione fattagli della sua bellezza, trovò un pretesto d’attirarla in casa, e la sposò. Circa alle battiture che le fece dare, egli n’è in qualche modo scusabile. La sua consorte fu un po’ troppo facile, e le scuse erano tali da far credere che avesse operato più male che in fatto non fosse. Ecco quanto posso dire per soddisfare alla vostra curiosità.» Ciò detto, salutò il califfo, e sparve.