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Nel dire queste ultime parole, Scheherazade vide il giorno, e tacque.
NOTTE LXVIII
La sultana delle Indie volgendo, appena fu mattino, la parola a Dinarzade: — Ecco, sorella,» le disse, «in qual modo Amina ripigliò la sua storia.
«La vecchia che m’accompagnava,» proseguì essa, «sommamente mortificata di quel caso, cercò di farmi animo. — Mia buona padrona,» disse, «vi domando perdono; fui io la causa di codesta disgrazia. Vi condussi da questo mercadante, essendo egli del mio paese, nè l’avrei mai creduto capace di tanta iniquità: ma non vi affliggete: non perdiamo tempo, e torniamo a casa; io vi darò un rimedio che in tre giorni vi guarirà sì perfettamente, che non vi rimarrà alcun segno.» Lo svenimento mi aveva indebolita in guisa, che a mala pena poteva camminare. Giunta a casa, smarrii un’altra volta l’uso de’ sensi entrando nella mia stanza. Intanto la vecchia mi applicò il suo rimedio, ed io, tornata in me, andai a letto.
«Calata la notte, giunse mio marito, e vedutami la testa fasciata, mi domandò che cosa avessi. Risposi ch’era un mal di capo, e sperava che tutto là finisse, ma egli prese un lume, e vedendomi ferita nella guancia: — D’onde proviene questa ferita?» mi domandò. Benchè non fossi molto rea, non poteva risolvermi a contargli la cosa: fare tal confessione ad un marito, sembravami un offendere le convenienze. Gli dissi dunque, che andando a comperare una stoffa di seta, valendomi del permesso da lui conceduto, un facchino carico di legna erami passato sì vicino, in una via strettissima, che un bastone mi avea fatto una graffiatura nel volto, ma ch’era poca cosa.