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chi siete; altrimenti non vi rimane più che un istante di vita. Io non posso credere che siate persone oneste, uomini autorevoli o distinti nel vostro paese, qualunque esso sia. Se ciò fosse, vi sareste meglio contenuti, e ci avreste avuti maggiori riguardi.

«Il califfo, impaziente di natura, soffriva assai più degli altri al vedere che la sua vita dipendeva dal cenno d’una donna offesa e giustamente irritata; ma quando udì ch’essa voleva sapere chi fossero tutti, cominciò a concepire qualche speranza, ed immaginando che non gli avrebbe tolta la vita quando fosse informata del suo grado, disse sottovoce al visir, che stavagli vicino, di dichiarar tosto chi egli era. Ma il visir, prudente e saggio, desideroso di salvar l’onore del suo padrone, e non volendo render pubblico il grave affronto ch’erasi da sè cercato, rispose soltanto: — Non abbiamo se non quanto meritiamo.» Ma se puranche, per obbedire al califfo, avesse voluto parlare, Zobeide non gliene avrebbe dato tempo: erasi ella già rivolta ai calenderi, e vedendoli tutti e tre guerci, chiese loro se fossero fratelli. Uno di essi rispose pegli altri: — No, signora, non siamo fratelli di sangue, non lo siamo che in qualità di calenderi, cioè osservando il medesimo tenore di vita. — Voi,» ripigliò essa, parlando ad un solo in particolare, «siete guercio di nascita? — No, signora,» rispose colui; «lo sono per un’avventura sì maravigliosa, che non v’ha chi non ne approfitterebbe se fosse scritta. Dopo quella disgrazia, mi feci radere la barba e le sopracciglia, e fattomi calendero, indossai l’abito che porto.

« Volse Zobeide la medesima domanda ai due altri calenderi, che le diedero egual risposta del primo. Ma l’ultimo che parlò soggiunse: — Per farvi poi conoscere che noi non siamo persone del volgo, ed affinchè possiate averci qualche riguardo, sappiate che tutti e tre siamo figli di re. Sebbene non ci fossimo