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NOTTE XXXV


Non appena fu svegliata la sultana, che tosto si mise in dovere di continuar il racconto nel modo seguente, sempre volgendo la parola al sultano:

— Sire, tornata che fu Zobeide al suo posto, tutta la compagnia rimase per qualche tempo in silenzio. Da ultimo, Safia, che stava seduta sulla sedia in mezzo alla sala, disse alla bella Amina: — Mia cara sorella, alzatevi, ve ne prego; già sapete cosa intendo dire.» Amina si alzò ed andò in un altro gabinetto diverso da quello ov’erano stato ricondotte le due cagne, e presto ne tornò con un astuccio guarnito di raso giallo, leggiadramente ricamato in oro e seta verde, si avvicinò a Safia, ed aperto l’astuccio, ne trasse un liuto e glielo presentò. Questa lo prese, e messo alcun tempo in accordarlo, cominciò a trarne qualche suono; poi, accompagnandolo colla voce, cantò una canzone sugli affanni dell’assenza, con tanta grazia, che tutti ne rimasero sorpresi. Siccome però aveva cantato con molta passione ed azione nel medesimo tempo, — Prendete, sorella,» disse alla vezzosa Amina, «sono stanca e mi manca la voce; divertite la compagnia suonando e cantando in mia vece. — Ben volentieri,» rispose Amina, accostandosi a Safia, che le consegnò il liuto e le cedè il posto.

«Amina, fatto un breve preludio per sentire se lo strumento fosse accordato, suonò e cantò quasi altrettanto tempo sul medesimo argomento, ma con tanta forza, ed era sì commossa o, a meglio dire, tanto penetrata dal senso delle parole cantate, che nel finire mancaronle le forze.

«Volle Zobeide attestarle la sua soddisfazione; e: