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nello stesso modo dell’altra. Pianse poscia con lei, ne asciugò le lagrime, la baciò riconsegnandola al facchino, al quale la vezzosa Amina risparmiò la pena di ricondurla al gabinetto, essendosene ella medesima incaricata.

«Frattanto i tre calenderi, il califfo ed i suoi compagni rimasero estremamente maravigliati di quell’esecuzione, nè potevano comprendere come mai Zobeide, dopo aver frustate con tanta forza le due cagne, animali immondi, secondo la religione musulmana, piangesse con loro, ne asciugasse le lagrime e le baciasse; e tra essi ne mormoravano. Il califfo soprattutto, più impaziente degli altri, bramava ardentemente di sapere il motivo d’un atto che sembrava sì strano, e non cessava di far segno al visir d’informarsene. Ma il visir volgeva altrove la testa, sinchè, costretto dai reiterati segni, rispose con altri segni, non essere tempo di soddisfare la sua curiosità.

«Restò Zobeide ancora qualche momento in mezzo alla sala, quasi per riaversi dalla fatica fatta frustando le cagne. — Cara sorella,» le disse la bella Safia, «compiacetevi tornare al vostro posto, affinchè faccia anch’io la mia parte. — Sì,» rispose Zobeide, e ciò detto, andò a sedersi sul sofà, avendo a destra il califfo, Giafar e Mesrur, ed a sinistra i tre calenderi ed il facchino...

— Sire,» disse a questo passo Scheherazade, «le cose udite da vostra maestà debbono senza dubbio parervi maravigliose; ma ciò che resta a raccontare, lo è molto di più. Son persuasa che ne converrete la notte vegnente, se vorrete permettermi di finire questa storia.» Il sultano acconsentì, e si alzò essendo giorno.