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vansi nella mia camera, vennero tosto a sedere, l’una alla mia testa, l’altra a’ piedi, con un ventaglio in mano, tanto per moderare il calore, quanto per difendermi dalle mosche che avessero potuto turbare il mio sonno. Mi credevano esse addormentato, e conversavano sottovoce fra loro; ma io non aveva che chiusi gli occhi, nè perdei sillaba de’ loro discorsi.

«Diceva una di quelle donne all’altra: — Non è egli vero che la regina ha gran torto di non amare un principe sì amabile come il nostro? — Certo,» rispondeva la seconda. «Per me non ci capisco nulla, e non so perchè ella esca tutte le notti, e lo lasci solo. Ch’egli forse non se ne accorga? — Eh! come vorresti che se ne accorgesse?» ripigliò la prima; «ogni sera ella mesce nella sua bevanda il sugo di certa erba, che lo fa dormire tutta la notte d’un sonno tanto profondo, d’aver essa il tempo di andare ove più le piace; ed all’alba torna a ricoricarsi accanto a lui, ed allora lo desta ponendogli un certo odore sotto al naso.

«Giudicate, o signore, della mia sorpresa a tale discorso, e dei sentimenti che m’inspirò. Nondimeno, qualunque fosse l’emozione che mi produsse, ebbi bastante predominio su me stesso per dissimulare, e finsi di svegliarmi e di non aver udito nulla. Tornata la regina dal bagno, cenammo insieme, e prima d’andare a letto, ella mi presentò colle sue mani la tazza piena d’acqua, ch’io era solito bere; ma in vece di recarla alla bocca, mi avvicinai ad una finestra aperta, e gettai l’acqua con tal destrezza, che mia cugina non se n’avvide. Le restituii quindi subito la tazza, acciò non dubitasse che non avessi bevuto. In seguito ci coricammo, e poco dopo, credendo ella ch’io fossi addormentato, il che non era, si alzò con tanta poca cautela, che disse quasi a voce alta: — Dormi, e possa tu svegliarti più mai.» Si vestì in fretta, ed uscì dalla camera....»