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Con qual ragione, mentr’io era costretto a condannarmi di mille infedeltà a Dio, mi sarei lagnato se alcuni uomini mi pareano vili ed alcuni altri iniqui; se le prosperità del mondo m’erano rapite; s’io dovea consumarmi in carcere, o perire di morte violenta?

Procacciai d’imprimermi bene nel cuore tali riflessioni sì giuste e sì sentite: e ciò fatto, io vedeva che bisognava essere conseguente, e che non poteva esserlo in altra guisa se non benedicendo i retti giudizi di Dio, amandoli ed estinguendo in me ogni volontà contraria ad essi.

Per viemeglio divenir costante in questo proposito, pensai di svolgere con diligenza d’or innanzi tutti i miei sentimenti, scrivendoli. Il male si era che la Commissione, permettendo ch’io avessi calamaio e carta, mi numerava i fogli di questa, con proibizione di distruggerne alcuno, e riservandosi ad esaminare in che li avessi adoperati. Per supplire alla carta, ricorsi all’innocente artifizio di levigare con un pezzo di vetro un rozzo tavolino ch’io aveva, e su quello quindi scriveva ogni giorno lunghe meditazioni intorno ai doveri degli uomini e di me in particolare.