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Capo LXXXV.

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Nel carcere contiguo, già d’Oroboni, stavano ora D. Marco Fortini e il signor Antonio Villa. Quest’ultimo, altre volte robusto come un Ercole, patì molto la fame il primo anno, e quando ebbe più cibo si trovò senza forze per digerire. Languì lungamente, e poi ridotto quasi all’estremità, ottenne che gli dessero un carcere più arioso. L’atmosfera mefitica d’un angusto sepolcro gli era, senza dubbio, nocivissima, siccome lo era a tutti gli altri. Ma il rimedio da lui invocato non fu sufficiente. In quella stanza grande, campò qualche mese ancora, poi dopo varii sbocchi di sangue morì.

Fu assistito dal concaptivo D. Fortini e dall’abate Paulowich, venuto in fretta di Vienna, quando si seppe ch’era moribondo.

Bench’io non mi fossi vincolato con lui così strettamente come con Oroboni, pur la sua morte mi afflisse molto. Io sapeva ch’egli era amato colla più viva tenerezza da’ genitori e da una