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sono ivi custoditi, quali a carcere duro, quali a durissimo.

Il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena a' piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile. Il durissimo significa essere incatenati più orribilmente, con una cerchia di ferro intorno a’ fianchi, e la catena infitta nel muro, in guisa che appena si possa camminare rasente il tavolaccio che serve di letto: il cibo è lo stesso, quantunque la legge dica: pane ed acqua.

Noi, prigionieri di stato, eravamo condannati al carcere duro.

Salendo per l’erta di quel monticello, volgevamo gli occhi indietro per dire addio al mondo, incerti se il baratro che vivi c’ingojava si sarebbe più schiuso per noi. Io era pacato esteriormente, ma dentro di me ruggiva. Indarno volea ricorrere alla filosofia per acquetarmi; la filosofia non avea ragioni sufficienti per me.

Partito di Venezia in cattiva salute, il viaggio m’aveva stancato miseramente. La testa e tutto il corpo mi dolevano: ardea dalla febbre. Il male fisico contribuiva a tenermi iracondo, e probabilmente l’ira aggravava il male fisico.