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a frullarmi nel capo bestialmente, e mi sembrarono attendibili. Lottai contro questa tentazione parecchi dì, poi mi vi abbandonai.

Sconobbi la bontà della religione; dissi, come avea udito dire da rabbiosi atei, e come testè Giuliano scriveami: — La religione non vale ad altro che ad indebolire le menti. — M’arrogai di credere che rinunciando a Dio, la mente mi si rinforzerebbe. Forsennata fiducia! Io negava Dio, e non sapea negare gl’invisibili malefici enti che sembravano circondarmi e pascersi de’ miei dolori.

Come qualificare quel martirio? Basta egli il dire ch’era una malattia? od era egli, nello stesso tempo, un castigo divino per abbattere il mio orgoglio, e farmi conoscere che, senza un lume particolare, io potea divenire incredulo come Giuliano, e più insensato di lui?

Checchè ne sia, Dio mi liberò di tanto male, quando meno me l’aspettava.

Una mattina, preso il caffè, mi vennero vomiti violenti, e coliche. Pensai che m’avessero avvelenato. Dopo la fatica de’ vomiti, era tutto in sudore, e stetti a letto. Verso mezzogiorno mi addormentai, e dormii placidamente fino a sera.