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vati altre volte, ma non mai con convulsioni pari a quelle che or m’assalivano.

Io attribuiva tali convulsioni e tali orribili angosce al troppo eccitamento degli affetti, a cagione della forma epistolare ch’io dava a quegli scritti, e del dirigerli a persone sì care.

Volli far altro, e non potea; volli abbandonare almeno la forma epistolare, e non potea. Presa la penna, e messomi a scrivere, ciò che ne risultava era sempre una lettera piena di tenerezza e di dolore.

— Non son io più libero del mio volere? andava dicendo. Questa necessità di fare ciò che non vorrei fare, è dessa uno stravolgimento del mio cervello? Ciò per l’addietro non m’accadeva. Sarebbe stata cosa spiegabile ne’ primi tempi della mia detenzione; ma ora che sono maturato alla vita carceraria, ora che la fantasia dovrebbe essersi calmata su tutto, ora che mi son cotanto nutrito di riflessioni filosofiche e religiose, come divento io schiavo delle cieche brame del cuore, e pargoleggio così? Applichiamoci ad altro. —

Cercava allora di pregare, o d’opprimermi collo studio della lingua tedesca. Vano sforzo! Io m’accorgeva di tornar a scrivere un’altra lettera.