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capitolo decimosecondo. | 87 |
mano, si sperava di potersi adoperare per la salute comune. S’avvicendavano così frequenti i trabalzi e i rivolgimenti di fortuna in quel tempo, che la speranza si ravvivava dalla stessa disperazione più fiduciosa, più intemperante che mai. Ad ogni modo si voleva dare un esempio della costanza e della dignità veneziana, contro quelle terribili accuse che i fatti ci scagliavano. Ora l’uno ora l’altro partiva per dar qualche ordine alle cose sue, e mettere insieme qualche roba prima di avviarsi all’esiglio. Chi correva a baciare la madre, chi la sorella o l’amante; chi si stringeva al cuore i bambini innocenti, chi consumava dolorosamente quell’ultima notte contemplando dalla riva di Piazzetta il Palazzo Ducale, le cupole di S. Marco, le Procuratie, queste sembianze venerabili e contaminate dall’antica regina dei mari. Le lagrime scorrevano da quelle ciglia devote; e furono le ultime liberamente sparse, gloriosamente commemorate.
Io era restato solo col dottor Lucilio perchè non aveva la forza di muovermi, quando salì per la scala un rumore frettoloso di passi, e Giulio Del Ponte coi colori della morte sul volto si precipitò nella stanza. Il dottore, che avea parlato pochissimo fino allora, gli si volse contro con molta veemenza, a domandargli, che cosa avesse e perchè tanto s’era tardato. Giulio non rispose nulla, aveva gli occhi smarriti, la lingua aderente al palato, e pareva incapace di capire quanto gli dicevano. Lucilio rabbuffò con una mano i suoi neri capelli, tra i quali traluceva già qualche filo d’argento, strinse il braccio del giovane, e lo trasse a forza in cospetto della lucerna.
— Giulio, te lo dirò io cos’hai! — diss’egli con voce sommessa ma ricisa — tu muori per un dolor tuo, quando non è lecito morire che pel dolore di tutti!... Tu ti arrendi vilmente alla tisi che ti consuma, quando dovresti salire con animo forte al martirio!... Io son medico, Giulio;