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coi denti, e si gettava sfinito sul letto. Una tosse profonda e ostinata affaticava le sue lunghe notti, mentre egli inondato di sudore, dolente sopra ogni fianco, e col volto sbigottito dalla paura si palpava il petto, e sollevava stentatamente i polmoni sfibrati, per esser pure persuaso che la morte gli stava ancora da lunge. In quei momenti Ascanio e la Pisana, affacciati ad un balcone che dava sul Canalazzo, cinguettavano d’amore con tutte quelle tenerezze del vocabolarlo francese, mentre Sua Eccellenza Navagero, sgomentito degli occhiacci dell’ufficiale, sonnecchiava o fingeva di sonnecchiare sopra una poltrona. Io che non ardiva penetrare in quella casa passava poi nel Canalazzo, colla mia gondola a notte profonda; e vedeva profilarsi nel quadro illuminato della finestra le figure dei due amanti. Povero Giulio! Povero Carlino! La Provvidenza, a guardar le cose in monte, governa tutto con giustizia. Non vi sono due esseri felici, che non si oppongano loro, come ombre in un dipinto, due sventurati. Peraltro se la mia disgrazia era forse minore, ognuno mi consentirà ch’io la meritava assai meno di Giulio. La sventura vendica tutto ma non santifica nulla, men che meno poi la superbia, l’invidia e la libidine. Se egli volle consumarsi in queste tre brutte passioni, fu sua la colpa; e noi lo compiangeremo, ben lontani dal glorificarlo. La croce era un patibolo, e il solo Cristo ha potuto cambiarla in un altare.
L’estate volgeva al suo termine. Già i fieri Bocchesidi Perasto avevano arso piangendo l’ultimo stendardo di S. Marco. La Repubblica di Venezia era morta, e un ultimo suo spirito vagolava ancora nei remoti orizzonti della vita sulle marine di Levante. Vidiman, il governatore di Corfù, fratello al più saggio al più generoso dei Municipali, spirava l’anima nel dolore alle continue vessazioni dei Francesi, sbarcati colà a guisa di padroni. Le popolazioni, stomacate della veneziana debolezza, sdegnavano di servire ai servi;