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volta il ticchio della gelosia; e questo formava un terzo argomento di grandi contese fra lui ed il canonico. Del resto Fulgenzio faceva alto e basso. Già subito dopo la mia partenza, egli avea comperato un podere di casa Frumier vicino a Portovecchio; e poi lo veniva arrotondando col convertire in ipoteche i sussidi che anticipava alla famiglia dei padroni. Per esempio c’era il frumento in granajo, e da Venezia gli domandavano denari; se il frumento andava a buon mercato, egli fingeva di comperarlo lui con quella somma che spediva a Venezia; e poi quando le derrate crescevano di prezzo egli ne guadagnava dalla vendita il suo bel salario. Se i grani calavano sempre, si scordava di quel finto contratto, e la somma della compera si scambiava in un mutuo, pel quale egli si tratteneva il sette, l’otto o il dodici per cento. Così conservava la pace della propria coscienza, accrescendo smoderatamente gli utili del proprio ministero.

I suoi figliuoli non erano più sagrestani o portinai; ma Domenico faceva pratica di notaio a Portogruaro, e Girolamo studiava teologia in seminario. In paese si prevedeva che una volta o l’altra Fulgenzio sarebbe divenuto il castellano di Fratta o poco meno. L’Andreini, a cui il conte Rinaldo avea commesso prima di partire una sorveglianza così all’ingrosso sulle faccende del castello, se la pigliava con tanto comodo, che quasi quasi pareva anche lui a parte della mangeria. Il cappellano, poveretto, aveva paura perfino dell’ex-sagrestano e non ci guardava pel sottile; il pievano di Teglio, veduto di mal occhio nella parrocchia pel suo costume arcigno e tirato, avea in casa sua troppe seccature per poter mettere il naso in quelle degli altri. Già la diocesi, dopo la venuta dei Francesi e la partenza del padre Pendola (costui secondo Leopardo doveva essere anch’egli a Venezia) tornava a dividersi e suddividersi in partiti ed in combriccole. Tanto più credevano