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beneficiata; e allora toccava a me. Il cittadino Carletto Altoviti, ex gentiluomo di Torcello, segretario della Municipalità, prediletto del dottor Lucilio, e celebre in piazza San Marco pei suoi begli abiti, per la sua disinvoltura, e soprattutto pei milioni del signor padre non era un uomo da buttarlo in un canto. Io peraltro, raumiliato nella mia boria dalla ribellione della Pisana, non mi gonfiava più per cotali meriti; e in onta alle esortazioni di Amilcare non sapeva più sostenere il mio volo nel cielo sublime della libertà e della gloria. Quel cielo cominciava ad oscurarsi, a minacciare tutto all’intorno grossi temporali. Mi fosse anche crollata la terra sotto i piedi, non ci mancava altro! Tuttavia, siccome era uomo di cuore ed onorato, non trasandava le mie occupazioni al palazzo Municipale. Soltanto mi piaceva più rodermi di rabbia al fianco della Pisana, che fiutare in quel palazzo la futura aura dogale pronosticatami da mio padre.

In quel torno, quando le faccende di Venezia s’erano già acconciate alla servitù francese, e alla vaga espettazione d’un avvenire che appariva sempre più triste, il dottor Lucilio comparve in casa della contessa di Fratta. Costei temeva già da un mese quella visita, e non avea più il coraggio di rifiutarla. Il dottore sedette adunque dinanzi alla contessa con quel suo solito fare nè umile nè arrogante, e le chiese nei debiti modi la mano della Clara. La contessa finse una gran sorpresa, e di essere scandalizzata da una tale domanda; rispose che la sua figliuola era prossima a pronunciare i voti, e non intendeva per nulla di avventurarsi ai pericoli del mondo, da lei con tanta prudenza schivati; accennò da ultimo ai diritti anteriori del signor Partistagno, il quale seguitava sempre ad empire bestialmente Venezia delle sue lamentazioni sul sacrifizio imposto alla Clara, e certo non avrebbe consentito ch’ella uscisse di convento per isposarsi ad un altro. Lucilio rimbeccò netto e