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capitolo ventesimoterzo. 591

tender nulla, mi basta esser sicuro che al di là nè mi attende sorte peggiore, nè castigo veruno! Bada a procacciarti una tal sicurezza, e morirai sorridendo!

Sì, morire sorridendo! Ecco non lo scopo, ma la prova che la vita non fu spesa inutilmente, ch’essa non fu un male nè per noi, nè per gli altri. Ed ora che avete stretto dimestichezza con me, o amici lettori, ora che avete ascoltato pazientemente le lunghe confessioni di Carlo Altoviti, vorrete voi darmi l’assoluzione? Spero di sì. Certo presi a scriverle con questa lusinga, e non vorrete negare qualche compassione ad un povero vecchio, poichè gli foste cortesi di sì lunga ed indulgente compagnia. Benedite, se non altro, al tempo nel quale ho vissuto. Voi vedeste come io trovai i vecchi ed i giovani nella mia puerizia, e come li lascio ora. È un mondo nuovo affatto, un rimescolio di sentimenti, di affetti inusitati, che si agita sotto la vernice uniforme della moderna società: ci pèrdono forse la caricatura e il romanzo, ma ci guadagna la storia. Oh, se come dissi un’altra volta, noi non pretendessimo misurare col nostro tempo il tempo delle nazioni, se ci accontentassimo di raccogliere il bene che si è potuto per noi, come il mietitore che posa contento la sera sui covoni falciati nella giornata, se fossimo umili e discreti di cedere la continuazione del lavoro ai figliuoli ed ai nipoti, a queste anime nostre ringiovanite, che giorno per giorno si arricchiscono di quello che si fiacca, si perde, si scolora nelle vecchie, se ci educassero a confidare nella nostra bontà e nell’eterna giustizia, no, non sarebbero più tanti dispareri intorno alla vita!

Io non sono nè teologo, nè sapiente, nè filosofo; pure voglio sputare la mia sentenza, come il viaggiatore che per quanto ignorante, può a buon dritto giudicare se il paese da lui percorso sia povero o ricco, spiacevole o bello. Ho vissuto ottantatrè anni, figliuoli; posso dunque dire la mia.