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capitolo ventesimoterzo. 583

il suo respiro tranquillo ed uguale come d’un bambino addormentato. Scriviamo prima che le scene spaventose di quella tragedia non si confondano affatto nella memoria, che raccapriccia tuttora.

Sul principio d’agosto dell’anno scorso erasi notata qualche inquietudine nelle Tribù indiane, che scendono a svernare sulle rive del fiume, anzi io avea fatto chiedere di soccorso il Governatore di Villabella, ma per la lontananza non ci avea lusinga di averne prima della primavera susseguente; bensì avea fatto munire intanto con fuciliere e cannoni le nostre caserme, di modo che quel fortino improvvisato difendesse anche gli approcci della nostra residenza. Ma la cosa si contenne nei limiti delle avvisaglie fino al gennaio passato, quando essendo scoppiato un tumulto più pericoloso intorno alla miniera dell’ovest, io dovetti accorrere in fretta colà con gran parte della guarnigione a dar un esempio. Quella fazione mi tenne lontano più ch’io non credessi; i selvaggi combattevano con un’astuzia particolare, e soltanto dopo tre settimane giungemmo a ricacciarli lontano assai, e a bruciar loro le barche.

Sicuri che non ci darebbero noia per un pezzo ci rivolsimo verso Rio Ferreires, quando a mezzo cammino si trovò un corriere che ci dava molta fretta, per esser la città minacciata dagli Indiani. Ad onta che i soldati fossero stanchissimi, sforzammo disperatamente le marce perchè molti aveano lasciato nelle caserme le loro mogli e si viveva in grandissima ansietà. Io temeva assai del dottor Ciampoli, il quale per essere molto fiero e risoluto, poteva arrischiare sè ed i suoi a qualche tristo cimento. La prima cosa che mi colpì gli occhi quando giungemmo in vista di Rio Ferreires, fu la Sopraintendenza tutta quanta in fiamme. Il furore, la rabbia ci raddoppiarono le forze, e per tutte quelle cinque miglia che restavano