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capitolo ventesimoterzo. 579

ch’essa fino al fiume che dietro il nostro giardino s’incurva rapidamente: un po’ a sinistra sono le caserme, dove io vado due volte al giorno a comandar gli esercizi e a fare l’appello della notte. Costoro sono ubbidientissimi soldati a Rio Janeiro, ma lungo la strada perdono mano a mano le loro virtù, si tramutano in scorridori, in briganti, e qui poi di poco dissomigliano dagli Indiani, che ci molestano di continui assalti.

Sono brevi guerre, ma sanguinose e piene di rischi. Si tratta di superare, col vitto di parecchie giornate in ispalla, rupi quasi inaccessibili, di passare precipizi orribili sopra alberi tagliati al momento e buttati a cavalcioni da una sponda all’altra, di cercare i nemici come le fiere in antri profondi e tenebrosi, in boscaglie cupe, paludose, piene di agguati e di serpenti. Si ode un fischio rasente l’orecchio, e sono frecce scagliate da mani invisibili: non sono nè feriti nè prigionieri; le armi sono avvelenate, e se fanno sangue uccidono; chi cade nelle mani del nemico è scannato senza remissione; dicono che qualche buongustaio si diverta anche a mangiarli. Del resto, fuori di questi passeggeri trattenimenti, la nostra vita è quella dei ricchi villeggianti sulle rive del Brenta, più questo cielo, e questa magica natura che tramuta la terra in paradiso. Il dottor Ciampoli, ispettore delle miniere, rimase assente due o tre giornate nei suoi giri di sorveglianza: egli ha avviato un commercio di diamanti con Bahja, che frutterà assai in poco tempo. Di solito gli serve di scorta un sergente con dieci uomini, ma qualche volta l’accompagno io. Scegliamo allora le gite più pittoresche e poetiche, e l’ultima volta che fummo in una miniera nuovamente scoperta, si vollero condurre anche la Gemma e il Fabietto. Il chiasso che si fece in quel piccolo viaggio non è a descriversi; mi parve esser tornato alle asinate di Recoaro e di Abano. Quando si aveva a varcare