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capitolo ventesimoterzo. 571

Roma, 4 luglio 1849.

Oh a che giovò mai la nostra perseveranza? Eccoci raminghi in un esiglio, che non finirà forse mai più! La legione è partita per le Romagne e per la Toscana, sperando di colà riguadagnare Venezia o il Piemonte e la Svizzera; ma la ferita, che mi si riaperse nelle fatiche di questi ultimi giorni, m’impedisce di camminare. Il generale mi fornì di alcune lettere per l’America, ove guarito che fossi mi permettessero d’imbarcarmi e mi volgessi colà. Sì! io mi volgerò oltre l’Atlantico! Colombo vi cercava un nuovo mondo: io non domanderò altro che pazienza. Ma sento che l’onore della nostra nazione è affidato a noi poveretti, sbalestrati dalla sventura ai quattro capi della terra. Attività dunque e coraggio! Un popolo non consta altro che di anime; e finchè la virtù affoca l’anima mia, la scintilla non è morta. Sempre sarò degno del nome che riconquistai e del paese dove son nato. Tu, padre mio, che ai giorni passati mi lusingava di rivedere e che oggi dispero di abbracciare mai più, abbiti l’ultimo sospiro del tuo figliuolo proscritto. L’amor mio d’or innanzi sarà senza sospiri e senza lagrime, come quello che si riposa solamente nelle eterne speranze. Penserò a mia madre e a mia sorella come a due angeli, che mi raddoppieranno quandochessia la beatitudine del cielo.

In mare, settembre 1849.

La fortuna mi diede compagna d’esiglio una famiglia romana; padre ancora giovine, di quarant’anni al più, che sostenne cariche importantissime nelle provincie, il dottor Ciampoli di Spoleto; e due suoi figliuoli, la Gemma, credo, di diciannove anni, e il Fabietto di dodici o