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capitolo ventesimoterzo. 569

brucia pelo, che non mi portò via fortunatamente altro che la falange d’un dito.

Ma intanto i difensori spesseggiavano; il bastione rimbombava di fucilate, gli uomini accorrevano ai cannoni, e i cacciatori, divisi dal loro capo ch’io aveva fatto prigioniero, furono respinti nel fosso. In pari tempo un altro assalto minacciava l’altra estremità della cortina, ma parte dei nostri ebbe tempo di accorrere colà, finchè arrivarono gli aiuti delle caserme; e si seppe poi da alcuni prigionieri che tutto in quella notte era disposto per una sorpresa; ma che non era riescita per esser stata respinta la ricognizione dei cacciatori.

Debbo render giustizia ai miei compagni, i quali tutti attribuirono a me l’onore di quel fatto d’armi, e chiesero unanimi ai capi che ne fossi ricompensato. Il giorno appresso, alla rassegna generale alla quale comparvi colla mano bendata, fu letto un ordine del giorno, nel quale si rendevano pubbliche grazie al gregario Aurelio Gianni per aver bene meritato della patria, e lo si innalzava al grado di alfiere. Tutti gli occhi si volsero verso di me: io chiesi licenza di parlare. — Dite pure, soggiunse il capitano: giacchè nelle nostre schiere la disciplina non era nè tanto muta, nè così severa come negli altri eserciti. —

Io buttai uno sguardo verso quei giovinotti padovani, che stavano in fila poco lunge da me, e alzando tranquillamente la voce: — Chieggo, soggiunsi, come unica grazia di rimanere gregario, ma di essere onorato d’una pubblica lode sotto il mio vero nome. Una di quelle solite tacce di spionaggio e di tradimento che disonorano le nostre rivoluzioni mi costrinse momentaneamente a lasciarlo; ora che spero aver persuaso del loro torto i miei calunniatori, lo riprendo con orgoglio. Mi chiamo Giulio Altoviti, e sono di Venezia! —

Un applauso generale scoppiò da tutte le file; credo