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capitolo ventesimoterzo. 563

non ricompera nulla senza la prova della costanza. Finire non è redimere; fra compassione e gratitudine, corre l’ugual tratto che tra colpa perdonata e perdono meritato. Soffrirò dunque ancora, colla ferma coscienza che la Provvidenza mi apre la miglior via a provare, con argomenti invincibili, se non la giustizia certo la purezza del mio passato. Nei patimenti, vivaddio, io non ho bisogno di ritemprarmi; ma avrò la forza di tacere, finchè mi venga incontro spontanea la stima dei miei fratelli.

Genova, ottobre 1848.

Era impaziente di combattere, non per giovanile baldanza, ma perchè temeva che mi fosse apposto a infingardaggine il forzato riposo. Ma qui pure si va per le lunghe, e forse non hanno torto. Si ricordino che chi presume troppo è chiamato poi traditore, al pari di chi fugge nel momento del pericolo. Grande stupidità è la nostra di misurare la vita dei popoli da quella degli individui; i popoli devono perchè possono aspettare; lo possono perchè hanno dinanzi non venti trenta o cinquant’anni, ma l’eternità. Io stesso fin’ora avrei voluto sacrificare la sorte della nazione alla mia smania di menar le mani; ma non ricadrò in questo errore che par generoso, ed è pazzo, disperato, vile. Finchè i nostri desiderii non concorderanno appunto colla moderazione e coll’opportunità della vera sapienza, le imprese cadranno o in eccesso o in difetto. Impariamo ad aspettare pazientemente per non aspettar lungamente. Così negli avvenimenti che consentono la deliberazione; ma quando il dado è gittato, quando l’onore è in ballo, si gettino allora peritanze, scrupoli, timori. Allora è concesso, anzi imposto di mutarsi da soldati in vittime; allora son proibiti i postumi rincrescimenti, le scambievoli rampogne; allora il sacrifizio è una necessità