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562 le confessioni d’un ottuagenario.

l’impresa. Ringraziate, o vincitori, la patria che vi diede occasione di mostrarvi valorosi, e di pregustare la gioja del trionfo. Non chiedetele corone, ma porgete riverenti i vostri trofei. Le corone sono per coloro che senza l’applauso degli spettatori, senza la speranza della gloria, senza l’avidità del trionfo combattono pazienti e ignorati. Posterità servile ed ingrata che da tanti secoli t’imbratti i ginocchi dinanzi alle statue di Cesare e d’Augusto, sorgi una volta, e incurvati ad adorare le larve sanguinose dei Galli e dei compagni d’Arminio. Non la fama ma la virtù comanda gli ossequi; la magnanimità che s’asconde sotto le ombre pugnaci delle selve, eclissa col suo splendore quella che passeggia tronfia e baldanzosa le strade di Roma. Anco una volta gli uomini sono ingiusti: ma Dio, signore del premio e del castigo, siede nella coscienza.

Lugano, agosto 1848.

Pur troppo era vero. Eccoci ora fuggiaschi senza sconfitta, come fummo prima vincitori senza trionfo. Ci avevano annunziato una guerra di disperazione e di sterminio; invece un passo dietro l’altro, oggi valicando un fiume, domani una montagna, il volere dei capi ci ritrasse a questi alpestri ripari. Suonarono al solito voci di tradimento: tradimenti involontari come il mio, di uomini che non disprezzarono, ma stimarono troppo. Ma è questo il consueto conforto dell’umana debolezza, di scaricarsi delle proprie colpe sulle spalle altrui. Intanto io che aveva sperato un assalto disperato e glorioso, una morte o un trionfo che compissero la redenzione del mio nome, eccomi riconfitto alla pazienza dei taciti sacrifizii, e delle lunghe aspettazioni. Deggio attendere da un dolore senza fine, quello che sperava da una subita vittoria. Espiazione anche questa. Lo ripeto; il sacrifizio, fosse pur quello della vita,