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capitolo ventesimosecondo. 555

Spero che la mia famiglia prospererà sempre nella sua nuova patria; ma nel ricordarmi quei due vezzosi nipotini non posso fare a meno di sclamare: perchè non son essi italiani! La Grecia non ha certo bisogno di cuori giovani e valorosi che la amino!...

Giulio dopo la caduta di Roma, mi avea dato novella di sè da molte stazioni del suo esilio; da Civitavecchia, da Nuova Yorch, da Rio Janeiro. Egli era esule pel mondo, senza tetto senza speranza, ma superbo di aver lavato col sangue la macchia dell’onor suo, e di portar degnamente un nome glorioso ed amato. Ma poi tutto ad un tratto cessarono le lettere, e soltanto ne ebbi contezza dai giornali, i quali lo nominavano fra i direttori di una nuova Colonia Militare Italiana che si formava nella Repubblica Argentina, nella provincia di Buenos Ayres. Ascrissi adunque a infedeltà postali la mancanza de’ suoi scritti, e attesi pazientemente che il cielo tornasse a concedermi quella consolazione. Ma un’altra non meno desiderata me ne fu concessa a quel tempo; voglio dire il ritorno in patria della Pisana e d’Enrico, con una vaga bamboletta che portava il mio nome, e dicevano somigliasse a un ritratto fattomi a Venezia quand’era segretario della Municipalità. Allora solamente, coi miei figliuoli al fianco e colla Carolina sui ginocchi, mi sentii rivivere. Fu come una tiepida primavera per una pianta secolare che ha superato un rigidissimo inverno. Allora solamente, dopo quattr’anni ch’era tornato a Cordovado, ebbi il coraggio di visitare Fratta, e là passai coi nipoti del vecchio Andreini, già padri essi pure di numerosa figliuolanza, l’ottantesimo anniversario del mio ingresso in castello, quando vi era giunto da Venezia, chiuso in un paniere.

Dopo il pranzo uscii soletto, per rivedere almeno il luogo dove già era stato il famoso castello. Non ne rimaneva più traccia; solamente qua e là alcuni ruderi fra i quali