Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
548 | le confessioni d’un ottuagenario. |
forti ripari della laguna aveva tempo di assodarsi, tutto dava a sperare che quello era il fine, o come diceva Talleyrand, il principio della fine. L’attività pubblica, occupando le menti d’ogni fatta di persone impediva l’ozio, migliorando grandemente la moralità del paese, e non ultimo conforto era l’abbassamento dei tristi, i quali a quel ridestarsi vittorioso della coscienza popolare s’erano rimpiattati nelle loro tane, come ranocchi nel fango. Il dottor Ormenta era fuggito in Terraferma, e morì, come seppi in appresso, per uno spavento fattogli da una scorreria di corpi franchi. Non gli giovò per nulla lo aver portato nell’infanzia l’abitino di sant’Antonio, ed ebbe di grazia che lo accettassero in Camposanto. Augusto Cisterna dimenticato e disprezzato da tutti, rimase a Venezia; ma perfino i figliuoli vergognavano di portare il suo nome; ed Enrico, quello scapestrato, riconquistò qualche parte della mia stima, col riportare uno sfregio traverso la faccia nella sortita di Mestre.
Un giorno ch’io tornava da una visita al general Pepe, il quale sopportava volentieri le mie chiacchiere, la Pisana mi si fece innanzi con cera più grave del solito, dicendo che aveva cose di qualche rilevanza da comunicarmi. Io risposi che parlasse pure, ed ella soggiunse, che siccome io le aveva promesso per marito un giovine di proposito e che valesse più per la sostanza che per l’apparenza, credeva di aver trovato chi facesse all’uopo.
— Chi mai? — le chiesi un po’ trasecolato, perchè la furbetta non si staccava mai dal letto di sua madre che allora appena cominciava a guarire.
— Enrico Cisterna! — sclamò ella gettandomi le braccia al collo.
— Come?... quello...
— No, non dite male di lui, padre mio!... dite quel giovine bravo e generoso, quel giovine che ad onta d’una