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capitolo ventesimosecondo. 545

lito, storpio, maresciallo, e duca di Rio-Vedras. Col suo gran corpaccione insaccato in una sfarzosa giornea scarlatta, piena d’ori e di fiocchi, egli sembrava a dir poco un qualche grottesco antenato della regina Pomarè. Ma il cuore che batteva sotto quell’assisa indescrivibile era sempre il suo; un cuore di fanciullo insieme e di soldato. Vedendolo, non potei far a meno di instituire in cuor mio un confronto fra lui e il Partistagno: ambidue presso a poco della stessa indole, avviati alla stessa carriera; ma ohimè quanto diversi nella fine! Tanto possono su quei temperamenti ingenui e pieghevoli i consigli, gli esempi, le compagnie, le circostanze: se ne foggiano a capriccio sgherri od eroi.

— Carlino dilettissimo, — mi diss’egli dopo avermi abbracciato sì strettamente, che alcune delle sue croci mi si uncinarono negli occhielli del vestito — come vedi ho piantato lì tutto, il ducato l’esercito e l’America, per tornare alla mia Venezia!

— Oh non dubitava, — soggiunsi io — quante volte udendo salire per la scala una pedata insolita, ho pensato fra me; che sia Alessandro?

— Ora contami un poco: qual fu la tua vita di tutti questi anni, Carlino? —

Gli narrai così di sfuggita tutte le mie vicende, e la conchiusione fu di presentargli la mia figliuola che allora appunto entrava nella stanza.

— Non lo nego, hai sofferto delle grandi sciagure, amico mio; ma ci hai qui delle consolazioni massiccie — (e stringeva fra le nocca dell’indice e del medio le guance rotondette della Pisana). — Con tutta la mia duchea non son arrivato a fare altrettanto: eppure ti giuro che tutte le belle brasiliane mi volevano per marito. — Amico mio, se hai figliuoli in istato di prender moglie, affidali a me: guarentisco loro delle belle cicciotte, e qualche milioncino di reali.