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536 le confessioni d’un ottuagenario.

— In vero, papà, sarei molto imbrogliata a dichiararveli, ma giacchè siete tanto buono, voglio farmi forza per accontentarvi. Prima di tutto quando s’andava a teatro, io vedeva Enrico accarezzato e festeggiato dalle più belle signore. Non vorrai già negare ch’egli non sia almeno almeno molto simpatico!...

Io non sapeva più in qual mondo mi fossi udendo la santoccia parlare a quel modo; ma volendo pur vedere fin dove sarebbe arrivata:

— Avanti — soggiunsi. — E poi?...

— E poi ha una foggia di vestire molto elegante, un bel modo di presentarsi, una loquela sciolta e brillante. Insomma per una ragazza senza esperienza c’era, mi pare, quanto bastava per rimaner abbagliata. Quanto ai suoi costumi, al suo temperamento io non me ne intendo, padre mio; credo che tutti siano buoni, e non sarei mai tanto sfacciata da chiedere cosa voglia dire un giovane scostumato! —

Era però abbastanza imprudente per farmi capire che lo sapeva; laonde io le risposi che senza cercar tanto addentro le doti morali di Enrico, ella doveva capire che quei pregi esterni e affatto d’apparenza non dovevano bastare per meritargli l’affetto d’una donzella bennata.

— E chi dice ch’egli abbia il mio affetto? — riprese ella. — Ti giuro, padre mio, che gli corrispondeva unicamente per compassione, e che adesso giacchè vedo ch’egli non ha la fortuna di piacervi, lo dimenticherò senza fatica, e accetterò di buon grado quello sposo che avrete la bontà di procurarmi.

— Eh sporchetta! — io sclamai — chi vi parla ora di sposo?... Che premura è questa?... Chi vi ha insegnato a tirar in mezzo simili discorsi?

— Nulla! — balbettò essa alquanto confusa — non ho parlato così che per dimostrarvi meglio la mia docilità.