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e che il suo Giulio bastava guardarlo per conoscerlo fin nel fondo del cuore. Che se egli non perdeva il capo dietro le fantasticaggini solite dei giovani, e si teneva invece al sodo e cogli uomini posati, bisognava ringraziarne il cielo; e che già una tremenda lezione l’avea già avuta nella fine di Donato. E lì rappiccava i soliti capi d’accusa; sui quali a me conveniva scrollare le spalle ed andarmene per non udir predicare tutta la giornata.

Peraltro non potei far a meno di somministrar a Giulio una gran lavata di capo e minacciarlo di peggio pel futuro quando alle solite voci che correvano sul suo conto se ne aggiunsero di peggiori e quasi infami. Un amico del cavalier Frumier mi avvertì aver udito raccontare d’una scena avvenuta in una bisca a proposito di alcuni tagli di makao, eseguiti, a quanto dicevano, da mio figlio con soverchia destrezza. Egli non avea risposto che coi pugni all’importuno osservatore, e questa maniera di difendere la propria onestà non gli dava ragione presso il giudizio dei più. Giulio, interpellato da me sopra questa circostanza, rispose per la prima volta con qualche alterezza che egli voleva giocare a suo piacimento senza che altri gliene prescrivesse il modo, che si beffava delle loro ciarle, ma che non voleva ricevere mali atti, e che chi era malcontento de’ suoi pugni se li facesse levare. Quanto al delitto appostogli non disse nè sì, nè no: e vi scivolò sopra con qualche confusione lasciandomi quasi persuaso che non glielo apponessero a torto. Peraltro aveva ancora una lontana lusinga che quei suoi mali diportamenti provenissero da un amor proprio fuorviato, da una smania eccessiva di contraddizione, e che se ne sarebbe forse allontanato prima che, batti e ribatti, le petulanze diventassero abitudini, e quelle colpe vizii. Attendeva a questa mia speranza, quando in mezzo all’entusiasmo propagatosi per tutta Italia all’amnistia concessa da Pio IX, Giulio fu appunto il solo