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peria, rivedendo bozze, emendando errori, cambiando vocaboli e aggiungendo postille, furono per lui il tempo più felice della vita, quello che sarebbe stato il primo amore ad un giovinetto qualunque. Ma lo stampatore non partecipava gran fatto di questo eccesso di giubilo; le schede non tornavano colle firme desiderate; e appena era se in Venezia e nelle città vicine se n’erano raccolte un paio di dozzine. Queste poi capitavano loro per mezzo dei commessi librari, e si sa quanto stenti il denaro a rifluire per questi incerti canali. Peraltro il Conte era sicuro di veder stampato entro un mese il suo primo fascicolo, e dormiva sulle rose. Ebbe sì a litigare colla censura per qualche frase, per qualche periodo, ma erano correzioni che non intaccavano menomamente l’opera d’importanza, e le concesse volentieri.

Così finalmente venne alla luce il famoso frontespizio coi quattro capitoli che gli tenevano dietro, e il conte Rinaldo ebbe la straordinaria consolazione di poter contemplare i cartoni della sua opera nelle vetrine dei librai. A questa consolazione tenne dietro l’altra non meno vitale di udirne strombettar il titolo sui giornali, e di vederne la critica tirata giù a campane doppie in qualche appendice. Fu il primo un giornale di Milano a lodare l’intento e la profonda erudizione del libro, nonchè il grande valor pratico che poteva acquistare anco per l’odierno commercio, ove concorressero circostanze tali che lo avviassero a ritentare gli scali d’una volta. Si parlava in quel cenno critico delle Indie, della China, delle Molucche, dell’Inghilterra, della Russia, dell’oppio, del pepe e della paglia di riso, di Mehemet Alì, dell’Impero birmano e del taglio dell’istmo di Suez, di tutto insomma fuorchè del lavoro di Rinaldo, e della mercatura, e degli istituti commerciali veneziani durante il medio evo.

Tuttavia Rinaldo se ne accontentò, perchè infatti l’in-