Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/524

516 le confessioni d’un ottuagenario.

Il conte Rinaldo aveva la modestia del vero merito, ma insieme anche la dignità naturale di chi è sinceramente modesto.

Perciò non s’abbassava, come dice il volgo a leccar le scarpe di nessuno, e tornava nella sua solitudine a vendicarsi nobilmente, e a consolarsi dei sofferti rifiuti col limare, correggere ed emendare il proprio lavoro. Trent’anni di studio, di ricerche, di meditazioni non gli sembravano sufficienti; ed ogni giorno gli saltava agli occhi qualche passo, dove una più larga critica avrebbe rischiarato le idee, o avviato meglio il lettore a comprendere lo spirito dell’autore. Per poco non era grato agli editori, che gli aveano lasciato il tempo di lumeggiar meglio qualche parte del quadro, e ritoccarne il disegno. Ma poi quando tornava a credere di aver finito, e si rimetteva in giro per le botteghe dei libraj col suo manoscritto sotto il tabarro, gli toccavano sempre le uguali repulse condite da ultimo anche da qualche motteggio, e dalle sgrugnate dei meno cortesi. Consigliato a rivolgersi agli editori più noti delle altre città, cominciò un ostinato carteggio con Firenze, con Milano, con Torino, con Napoli. I più neanche rispondevano; qualcheduno che serbava rispetto al Galateo, lo invitava a mandare saggi della sua opera. Ed eccotelo, il dabbenuomo, a scegliere a ripulire a trascrivere ancora: ma in fin dei conti capitava una lettera che trovava o lo stile troppo astruso, o l’argomento troppo alieno dagli studii presenti; lo si invitava a scrivere di statistica e d’economia che sarebbe decentemente retribuito, ma in quanto a quei lavori monumentali d’erudizione storica, non s’affacevano al nostro secolo.

Il povero conte metteva anche quelle ultime lusinghe nella cantera delle illusioni svanite; ma ne aveva una tal provvista da frustare ancora, che corsero parecchi anni prima che si persuadesse dell’assoluta impossibilità di tro-