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capitolo ventesimosecondo. 513

e che solamente lo rallentava il misero stato delle finanze della Porta, ma io non avrei mai creduto che si dovesse giungere a qualche risultato: e perciò mi parvero un grazioso presente le ottantamila piastre che mi furono contate, e quanto agli eredi del Visir li lasciai in pace, perchè mio figlio Luciano, incaricato di prenderne contezza, aveva risposto ch’erano tutta gente oscura e miserabile. Tra le ottantamila piastre e i trentamila ducati che mi fruttò la liquidazione finale dei miei conti, formai una bella somma, colla quale comperai un grande e bel podere intorno alla casa Provedoni di Cordovado, nonchè molti fondi del patrimonio Frumier, dei quali il dottor Domenico Fulgenzio cercava sbarazzarsi, per adoperare più liberamente la propria sostanza nel circuire e incorporarsi quella degli altri.

Tuttavia l’educazione di Giulio, consigliandoci la dimora in città, continuammo ad abitare la mia casa paterna di Venezia: pei due mesi d’autunno si prendeva a pigione un casino sul Brenta e là si godeva dell’aria libera e d’una compagnevole villeggiatura. A poco a poco m’era avvezzato a Venezia, ch’era diventato anch’io come quel dabbenuomo, che non potea vivere un giorno senza vedere il campanile di San Marco. E non vi dirò del campanile, ma certo la Chiesa, le Procuratie, il Palazzo Ducale li rivedeva sempre con un piacere misto di dolcissima melanconia, quando il San Martino ci faceva dar le spalle alla campagna. Bruto invece, che colla sua gamba di legno si trovava meglio d’assai in terraferma, ci serviva volonterosamente da fattore; e gran parte della buona stagione la passava in Friuli, dove anche la sua presenza era utile per uno sciame di nipoti d’ogni sesso ed età che avevano lasciato i suoi fratelli e ch’egli si studiava alla bell’e meglio di beneficare. Io per me aveva provveduto a tutti i figliuoli di Donato e della Bradamante. Due ragazze erano maritate assai decentemente, una a Portogruaro, l’altra a San Vito; e