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510 le confessioni d’un ottuagenario.

Nel riandare la mia storia io penso sempre alla margheritina, a quel modesto fiorellino dal botton d’oro e dai raggi bianchi, sul quale le zitelle traggono il pronostico d’amore. Una per una le cavano tutte le foglie, finchè resta solo l’ultima, e così siamo noi che dei compagni coi quali venimmo camminando lungo i sentieri della vita, uno cade oggi, l’altro domani, e ci troviamo poi soli, melanconici nel deserto della vecchiaja. Alla morte di Lucilio tenne dietro quella di mio cognato Spiro, la quale ci fu annunciata da Luciano e raddoppiò il lutto del mio cuore. Quanto a lui, egli non pensava più di abbandonare la Grecia ed io l’avea preveduto che l’ambizione dovea soperchiare in quel giovane qualunque altro sentimento. S’era un po’ scoraggiato dopo l’assassinamento del conte Capodistria, ma poi, all’assunzione al trono di re Ottone aveva ottenuto un buon posto nel Ministero della guerra, e di colà agognava i posti più alti, coll’avida pazienza del cane che mette il muso sul ginocchio del padrone per aver un tozzo del suo pane. Di noi, di Venezia, dell’Italia egli non parlava più che come di altrettante curiosità: più affettuosamente forse mi scriveva sua moglie, benchè dai figliuoli di Spiro sapessi che non la trattava molto bene. E già s’intende che della trascuranza di Luciano mia moglie seguitava ad accagionar me come della morte di Donato.

Peraltro nei due o tre anni che seguirono, disgrazie che colpirono più direttamente lei me la resero un po’ più indulgente; e di ciò ebbi ed avrò sempre rimorso, pei grandi malanni che provennero dalla mia fiacca indulgenza. Le mancarono ad uno ad uno tutti i suoi fratelli, e non restava più che Bruto, il quale sopportava assai lietamente il crescer degli anni, e solamente si lamentava che il destino gli prefiggesse per dimora Venezia ove gli spessissimi ponti davano un soverchio incommodo alla sua gamba di legno. Così noi andavamo pian piano scadendo verso la vecchiaja,