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capitolo ventesimoprimo. 509

della compagnia e della conversazione di Lucilio se questi fosse rimasto più a lungo con noi. Ma pur troppo il suo male si aggravò all’aprirsi della primavera, e giusta le sue previsioni lo condusse ben presto a morire. Egli spirò guardandomi fieramente in volto quasi mi vietasse di compiangerlo; la Clara era nell’altra camera che pregava per lui, e l’ultima parola del moribondo fu questa: «Ringraziala!» Infatti io la ringraziai, ma non sapeva bene di cosa. Per quanto l’avessi pregata, non avea consentito a consolare il morente della sua presenza; ma siccome ella faceva uno studio peculiare di attraversare le proprie voglie, così mi è lecito il credere che ne sentiva anzi desiderio; e che offerse anche quel sacrifizio per maggior bene dell’anima di lui. Io rimasi più meditabondo che addolorato dopo la perdita di Lucilio; ma mi diede molta stizza il piacere che ne dimostrò mia moglie senza alcun riguardo. Secondo lei, la frequenza del dottore in casa nostra metteva a pericolo la moralità de’ suoi figliuoli, e Dio le avea fatto una grazia segnalata mandandolo all’ultima dimora che gli avea destinata.

Quel giorno appiccai coll’Aquilina una furiosa battaglia, che non passò senza lagrime e senza strepiti; ma pazientava anche troppo, e una tale ingiustizia, mescolata a tutto potere di riconoscenza, meritava le scopate. Confesso che io nè ebbi nè avrò mai la serena pacatezza di Lucilio. Del resto la morte di questo come già quella della Pisana mi persuase sempre più che ad esser forti e generosi c’è sempre da guadagnare. Non foss’altro si muore allegramente, e questa, oltrechè è ventura desiderabilissima, è anche la pietra del paragone su cui si differenziano i galantuomini dai tristi. Durante la vita c’è di mezzo l’ipocrisia; ma sul gran punto... eh, credetelo, amici miei, non si ha nè tempo nè voglia di far la commedia. E il castigo più grande e più certo dei birbanti è quello di morire tremando.