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capitolo ventesimoprimo. | 501 |
Il nostro Giulio fu colpito da quel morbo terribile, e la costanza e il coraggio col quale sua madre lo assistè, le diedero quasi un’altra volta i diritti di madre. Io dovetti metter la piva nel sacco coi miei; e se serbai qualche pretesa fu sulla Pisana, la quale più del fanciullo abbisognava d’un indirizzo certo e morale per essere a tre doppi di lui accorta e maligna. Sembrava che col nome ella avesse ereditato qualche cosa del temperamento della mia Pisana, e quando prima di improvvisare una filastrocca di bugie, con un leggiadro movimento del capo si liberava la fronte dalle diffuse anella dei bei capelli castani che la inondavano, la mia mente correva tosto alla piccola maga di Fratta; e così io mi lasciava corbellare colla massima dabbenaggine. Senonchè la mia figliuolina non aveva la spensieratezza e la petulanza della Pisana; anzi sapeva calcolar molto bene i fatti suoi, e piegarsi e torcer il collo oggi per drizzar il capo e impennarsi meglio domani. Io la teneva d’occhio e vedeva crescere in lei ogni giorno quello studio di piacere che è la fortuna e la rovina delle donne.
Cercava con bella maniera di indirizzarla convenevolmente, di renderle pregevole il suffragio dei buoni, e di farle avere in poco conto l’ammirazione dei tristi, dimostrandole come bontà e tristizia non si conoscano dalle apparenze più o meno splendide ma dalle qualità delle azioni; ma mi accorgeva di far poco frutto. Le avevano troppo inculcato che chi comanda ha ragione di comandare, e non può desiderare altro che il meglio di chi ubbidisce, perch’ella credesse e potesse amare la virtù povera dispregiata ed oppressa; per lei merito, virtù, onori, ricchezza, potenza erano una sola cosa, e la sua capricciosa testolina s’empiva di fantasmi e di corbellerie. Correva dietro al lume come la farfalla. Ma le ali, poverina, le ali?... Come farai, leggiera farfalletta, a spiccare il volo