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494 le confessioni d’un ottuagenario.

cai amicizia con molte vecchie conoscenze; trovai molti morti, molti padri di famiglia che al tempo della mia intendenza pendevano dalla mammella, e molte belle mammine che io avea fatto saltare sulle ginocchia. Ahimè! le belle che avea corteggiato durai fatica a riconoscerle; e per molti giorni non fui capace di guardarmi nello specchio. Bologna non era a quei giorni nè affollata nè allegra, ma trovai gli stessi cuori, l’ugual gentilezza, e cresciute a mille tanti la sodezza e la concordia. Non si viveva più nella confusione e nell’ansietà d’un tempo; tutto era chiaro e lampante e solamente aveano mancato le forze; ma la speranza perdurava. E non dico se a torto o a ragione, ma mi pregio di raccontare questa prova di costanza ch’ebbi sotto gli occhi.

Giunti a Venezia, lascio pensare a voi la consolazione dell’Aquilina, e la gioia di Donato! Ma la salute di questo, che si sperava dovesse ristabilirsi affatto nell’aria natale, decadde anzi prontamente. La ferita diede prima sentore di volersi riaprire, indi di far sacca internamente: dei medici chi opinava che fosse leso l’osso, e chi d’una scheggia di mitraglia rimasta in qualche cavità. Tutti eravamo inquieti, afflitti, agitati. Il solo malato allegro, sereno, ci confortava tutti ridendo assaissimo della burla da lui accoccata ai frequentatori di casa Fratta, e godendo di udir narrare da Bruto le grandi boccacce ch’essi ne avevano fatte. Il dottor Ormenta, reduce da poco da Roma con non so quante pensioni ed onorificenze, avea sciolto la quistione sentenziando: tale il padre tale il figlio. Io per me era più disposto a insuperbire che ad offendermi d’un cotal raffronto; e certamente non chiesi conto al sanfedista di cotali parole che forse egli credette ingiuriose all’ultimo segno. D’altra parte pur troppo era occupato di più gravi dolori. Donato andò peggiorando sempre, e alla fine si morì sullo scorcio dell’autunno. Fra tutte le sciagure