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dorati dell’intendente Soffia, ma non beccai all’amo, e le lettere dell’Aquilina erano troppo pressanti perch’io non pensassi di tornare al più presto.

Un crudele avvenimento fu che mi tolse di accondiscendere quando avrei voluto a questo mio desiderio. La salute dell’Aglaura, che anche in Grecia non si era mai raffermata, peggiorò in qualche settimana di modo che si disperò della guarigione. La disperazione di Spiro, l’accoramento dei suoi figliuoli potevano essere intesi solamente da me, che perdeva in lei l’unica sorella, e la sola creatura che mi ricordasse la mia povera madre. Nè cure nè medicine nè tridui valsero nulla. Ella spirò l’anima fra le mie braccia, mentre tre soldati, tre eroi, che avevano perigliato cento volte la vita contro le scimitarre degli Ottomani, si scioglievano in lagrime intorno al suo letto. Non era ancora assodata la terra che copriva il feretro di mia sorella, quando mi venne da Venezia un altro colpo terribile. Mio cognato scriveva che Donato era scomparso improvvisamente senza lasciar detto nulla, e senza che si sospettasse alcun motivo a quell’improvvisa partenza, sicchè con ragione si temevano le peggiori disgrazie. L’Aquilina sembrava impazzita pel dolore e la mia presenza a Venezia era necessaria in quei terribili frangenti. Senza potersene far ragione egli conghietturava che Donato potesse essere involto nei torbidi che agitavano allora la Romagna, ma raccomandava di darmi fretta, che forse prima del mio arrivo avrebbero saputo qualche cosa. Gli altri miei figliuoletti godevano ottima salute, e s’impazientivano di non veder più il loro papà, e di aver malata la mamma. Vi figurerete che non misi più tempo in mezzo. Accennai confusamente, tanto a Luciano che agli altri, ad un affare che mi chiamava tosto a Venezia, e m’imbarcai quel giorno stesso sopra un piroscafo francese che salpava per Ancona.

Ma se fu angoscioso il viaggio pei tristi presentimenti