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486 le confessioni d’un ottuagenario.

Morea: la Turchia non aveva nè armi, nè cannoni onde ajutarlo, e la guerra santa promulgata con tanta enfasi dava ai Greci pochissima paura, e minor fastidio. Il conte Capodistria stringeva nelle sue mani le sorti del paese, e benchè avesse voce di essere un turcimanno della Russia, pure la necessità gli rendeva ubbidienti gli animi del popolo. Spiro lasciava travedere nelle sue lettere di sperarne ben poco; mi diceva anche che il suo figlio maggiore e il mio Luciano erano tra i prediletti del conte con pochissimo suo aggradimento, ma che i giovani corrono dietro alla gloria ed al potere, e bisognava scusarli. Teodoro invece stava coi liberali, coi vecchi caporioni dell’insurrezione tenuti d’occhio allora peggio dei Turchi, e non era ben veduto dal Conte presidente; bensì egli suo padre lo lodava assai di quella indipendenza veramente degna d’un greco.

Merito delle circostanze, di Capodistria, dei Francesi o dei Russi, il fatto sta che la Morea fu libera in breve da’ suoi oppressori, e che con qualche respiro di pace essa potè attendere dai congressi europei la decisione de’ suoi destini. Toccava all’esercito della Russia menar l’ultimo colpo. Il passaggio vittorioso dei Balkani, cui tenne dietro il trattato di Adrianopoli, sforzarono il Divano a consentire la redenzione della Grecia, e ben più avrebbe ottenuto fin d’allora lo czar Nicolò, se la gelosa diplomazia di Francia e d’Inghilterra non lo avesse arrestato. Spiro mi diede notizia di quel fausto avvenimento con parole veramente bibliche ed inspirate; molto egli avea rimesso della sua antipatia per la Russia e per Capodistria, e nell’annunziarmi il probabile matrimonio di mio figlio Luciano con una nipote del conte, aggiungeva: «Così la tua famiglia sarà congiunta col sangue ad una nobile prosapia che inscriverà il suo nome sull’atto d’indipendenza della Grecia moderna.» Lessi dappoi alcune righe di mio figlio nelle quali mi domandava di consentire a quel matrimo-