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capitolo ventesimoprimo. 483

fuggivano dal caffè o si riparavano tramortiti dietro i tavolini e le seggiole. — Questo ch’io ti diedi fu caparra di giustizia, e se chiedi riparazione sai dove sto di casa. I calunniatori sono anche di solito vigliacchi.

Raimondo tremava e fremeva, ma non sapeva in qual modo difendersi. La sua vigoria naturale, sebbene affranta dalle molli abitudini di tanti anni, gli riscaldava ancora il sangue; ma nè la voce gli ubbidiva, nè, avvezzo com’era a vedersi passate buone le sue smargiassate, poteva riaversi dalla sorpresa di quel subito assalto. Era come il cane, che dopo aver abbaiato un pezzo e inseguito accanitamente il ladro che fugge, si ritira ben tosto e ripara al pagliajo se quegli ha il coraggio di ripiombargli addosso. Io intanto, già uscito dalla bottega, me ne andai a casa, e non ne udii parlare per tre giorni. La mattina del quarto venne certo Marcolini, che aveva voce del miglior schermidore di Venezia, a parteciparmi che ritenendosi il signor Raimondo di Venchieredo offeso profondamente dalla maniera con cui l’aveva trattato al caffè Suttil, e chiedendo di ciò una riparazione, lasciava a me, come ne aveva il diritto, la scelta delle armi: perciò scegliessi pure, e mandassi i miei testimoni coi quali regolare le condizioni del duello. Io gli risposi che avendo avuto il diritto di sfidare il signor Raimondo fin dal primo momento che lo udii denigrare la fama d’una persona rispettabile e a me carissima, e non avendolo fatto solamente per alcune mie speciali opinioni sopra il duello, riteneva essere stato io il provocatore; facesse dunque lui per la scelta delle armi, e i testimoni li avrei mandati quello stesso giorno.

Il Marcolini mi ringraziò di sì cavalleresca compitezza, e andossene pei fatti suoi. Seppi in seguito che, dopo la mia partenza dal caffè, Raimondo aveva strepitato assai, e giurato e spergiurato che mi avrebbe stracciato il cuore coi denti, e simili altre cose degne in tutto della sua nota spa-