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allora, e salutavano con quegli spari l’ingrata Venezia). Sono i sedici mila congiurati! (i sogni di Lucilio). È il popolo che vuole sbramarsi nel sangue dei nobili! (il popolo nonchè preferire l’obbedienza a que’ nobili alla più dura servitù che lo minacciava, amava anzi quell’obbedienza e non voleva dimenticarla). Insomma fra le grida, gli urti, la fretta, la paura, si venne al suffragio. Cinquecento dodici voti approvarono la parte non ancor letta, che conteneva l’abdicazione della nobiltà, e lo stabilimento d’un Governo Provvisorio Democratico, semprechè s’incontrassero con esso i desiderii del general Bonaparte. Del non aspettarsi da Milano i supremi voleri del medesimo, e il trattato che si stava stipulando, davasi per motivo l’urgenza dell’interno pericolo. Venti soli voti si opposero a questo vile precipizio; cinque ne furono di non sinceri. Lo spettacolo di quella deliberazione mi rimarrà sempre vivo nella memoria: molte fisonomie che vidi allora in quella torma di uomini avviliti, tremanti, vergognosi, le veggo anche ora dopo sessant’anni con profondo avvilimento. Ancora ricordo le sembianze cadaveriche sformate di alcuni, l’aspetto smarrito e come ubbriaco di altri, e l’angosciosa fretta dei molti che si sarebbero, cred’io, gettati dalle finestre per abbandonare più presto la scena della loro viltà. Il Doge corse alle sue stanze svestendosi per via delle sue insegne, e ordinando che si togliessero dalle pareti gli apparamenti ducali; molti si raccoglievano intorno a lui, quasi a scordare il proprio vitupero nello spettacolo d’un vitupero maggiore. Chi usciva in piazza avea cura prima di gettare la parrucca e la toga patrizia. Noi soli, pochi e illusi adoratori della libertà in quel pecorame di servi (eravamo cinque o sei) corremmo alle finestre e alla scala gridando: — Viva la libertà! — Ma quel grido santo e sincero fu profanato poco stante dalle bocche di quelli, che ci videro una caparra di salute. Paurosi e traditori si mescolarono con noi; il